Protagonista indiscussa della poesia di Nuno Júdice è la parola.
Quasi non c’è poesia che non la contenga e con la quale il poeta
alimenta le sue passioni, i suoi paradossi, le sue riflessioni. È essa
che gli ispira le metafore e le allegorie più belle, con esse viaggia e
riempie la sua valigia. Possono essere parole vecchie, relegate in un
angolo del dizionario, ma quando le mette insieme, quando le unisce nel
verso, risplendono di nuova luce. Ama le parole esatte, dure come gli
oggetti che designano, parole che si uniscono e si sovrappongono a
quelle già usate, che devasta, frantuma in sillabe, incendia, ne
raccoglie i resti, gli aggettivi, gli avverbi, le preposizioni, per
creare altre parole, perché la voce non si bruci e poco importa che le
frasi perdano il senso, purché resti inalterato il nome delle cose. Come
fa la casalinga con i panni che mette ad asciugare al sole, così fa il
poeta con le parole, le attacca nel verso con le mollette, le spiana con
il ferro della retorica, senza bruciarle, le sistema nel tiretto della
strofa per poi tirarle fuori quando servono per fare o leggere poesia,
ed esse seguono il loro percorso, sporcandosi col fango della strada,
riempendosi della muffa delle case chiuse, respirando il sudore degli
amanti. Si lavano, si asciugano e tornano a sporcarsi in continuazione
perché fanno parte del mondo e della vita (Emilio Coco)
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